Resilienza di una piccola conformista: … e se è così, l’ironia ci salverà la vita

Se è vero che possiamo scegliere i nostri amici, è altrettanto vero che dobbiamo tenerci i parenti che ci capitano. Questa considerazione ben si adatta ad Esther, dissacrante protagonista di La piccola conformista, di Ingrid Seyman. Mentre sullo sfondo si consuma il dramma familiare di Patrick e Babeth, una tagliente ironia affida allo sguardo severo della protagonista una critica feroce al mondo degli adulti: fragili, inadeguati, sessantottini più nella forma che nella sostanza, ma quanto basta per coinvolgere i figli Esther e Jérémy nella loro strampalata quotidianità. I coniugi Dahan, l’uno ebreo e l’atra atea, erano decisamente male assortiti, ad unirli erano ‘l’esibizionismo domestico’, la sinistra, l’abolizione della pena di molte e poco altro. Vagheggiavano un mondo nuovo che, di fatto, non gli corrispondeva e a cui volevano convertire i propri figli. Di educazione cattolica Babeth e vicedirettore di banca Patrick erano di fatto l’espressione idealista di un ‘68 che si contrapponeva al loro status e alla loro classe sociale; vagheggiato come giusto, esternato nell’abbigliamento e nelle mode, quel ‘68 domestico rappresentava un mondo a cui Esther doveva resistere.

L’occasione si è presentata quando il fratello Jérémy, iperattivo e dislessico, è stato cacciato dall’ennesima festa hippie a cui erano stati inviati. Eccola la svolta reazionaria della famiglia Dahan: salvare la propria vita sociale iscrivendo i figli alla scuola Jeanne d’Arc, roccaforte dei cattolici di destra. Così Esther imparò a mentire e a lottare per imporre la propria popolarità: voti alti, discrezione e un morboso attaccamento alla grammatica e all’ortografia fecero il resto. Beniamina dei compagni e della conservatrice famiglia Robert, si accompagnò per un po’ alla cattolicissima Agnès, sino a vagheggiare il sogno di un battesimo cattolico. Consapevolezza di classe e di religione? Più sinistra voglia di commettere un parricidio e colpire nell’amor proprio quel padre ebreo che li costringeva ad assistere ai suoi spettacoli domestici di poesia e canzoni e a rispettare ordini e regole scritti e declamati su liste infinite. Un Delon da salotto, capace di far esplodere Babeth e coinvolgerla in litigi furibondi, consumati a suon di sberle e piatti infranti. A Babeth – il cui unico difetto sembrava essere il marito e qualche tempesta emotiva di troppo –, Esther reagiva aggrappandosi a ciò che reputava affidabile: le regole grammaticali e i precetti della Chiesa.

La difficile convivenza domestica si allargava ai due rami della famiglia: alla cattolicissima nonna Suzie che disapprovava il genero Patrick e l’anticlericalismo della figlia, alla ipocrita nonna Fortunée, che intravedeva nella ‘presunta santità’ della nuora l’opportunità di ‘scaricare’ un figlio troppo difficile da gestire. Nella ruota delle ipocrisie, la sorte peggiore toccherà proprio a Babeth, bell’anima dagli occhi che brillano ostinatamente, bersaglio di un amore complicato, di una madre intransigente e di una suocera calcolatrice. L’impari lotta di Esther per resistere all’impermanenza delle cose e per evitare di diventare un’adulta incline alla trappola del matrimonio, non le risparmiarono il dolore più forte e il distacco traumatico da quella madre amatissima. La soffocante trappola della famiglia, la lotta di classe, le ipocrisie e gli egoismi umani – benché perennemente smascherati dall’arguzia e dall’ironia di Esther – rimangono senza via di soluzione; non resta che preservarsi e rassegnarsi agli imprevedibili colpi della vita e della morte, senza trionfi giustizialisti o ottimistici colpi di scena, perché il più delle volte “così è…” e dobbiamo accettarlo, magari dissacrandolo un po’.

di Tiziana Santoro

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