Piroscafo Santamarina: Il racconto umano di una tragedia

Sarà, certamente, capitato ai croceristi in visita alle Isole Eolie di notare in piazza di Santa Marina, a Salina, la scultura marmorea dell’artista Sergio Santamarina. Il monumento ricorda i caduti in guerra il 9 maggio del 1943. L’episodio è noto, soprattutto, alla comunità eoliana che, annualmente, commemora le vittime del piroscafo Santamarina, affondato dal sommergibile inglese Unrivalled della Royal Navy, comandato dal tenente Hugh Bentley Turnerel e diretto da Malta nelle nostre acque. Ancora oggi, il dramma del Santamarina è, per la comunità locale, una ferita mai rimarginata che ha, per la prima volta, costretto i civili a fare i conti con una guerra che, sino a quel momento, era apparsa lontana e inspiegabile. Il dramma in termini di vite umane è stato stimato come segue: 62 vittime e 45 sopravvissuti. Ma questo non è tutto, la società eoliana di navigazione ha perso una delle sue imbarcazioni più importanti. Il Santamarina – varato nel novembre del 28 a Palermo, nel 1828 – era munito di un salone centrale e 50 confortevoli cabine di prima classe: questi erano veri e propri alloggi di lusso, due dei quali comprendevano un elegante salotto e un ponte di passeggiata. Inoltre, per gli amanti della lettura, il piroscafo metteva a disposizione 80 preziosi volumi, collocati in un’elegante biblioteca. La terza classe, situata a poppa, era munita di 36 letti e un confortevole reparto per le donne.

La mattina del 9 maggio sembrava un’odierna giornata di navigazione sulla tratta Lipari-Milazzo con scalo a Vulcano. Improvvisamente, e con sconcerto di tutti, alle ore 15.40, l’imbarcazione fu colpita da 2 siluri nella parte centrale, mentre si trovava ad appena 2 miglia da terra. Sino ad ora, l’interesse dell’opinione pubblica è stato rivolto, prevalentemente, a individuare la causa della sciagura. Per anni, si sono susseguite diverse ipotesi. A molti, piace credere che l’obiettivo militare fosse la presenza a bordo di 4 ufficiali tedeschi provenienti dalla Libia e in possesso di documentazione da consegnare ai vertici militari tedeschi. Altri fanno rientrare l’accaduto nell’operazione ‘R’, che prevedeva di affondare ogni imbarcazione nell’area dello Stretto, in previsione dello sbarco alleato. Dagli archivi storici Nazionali Inglesi di Kew, risulta, piuttosto, che l’operazione militare rientrasse in una routine volta a fiaccare lo stato d’animo del nemico. Ciò che più mi interessa riportare in questo articolo è quanto emerge dai verbali d’indagine dell’ufficio circondariale di Lipari, redatti dal tenente di porto, Alberto Alovisi, comandante del porto di Lipari, immediatamente dopo la tragedia, perché utili a restituire ai lettori la dinamica della tragedia vissuta dal punto di vista degli uomini che si trovavano a bordo, con attenzione alle loro percezioni ed emozioni.

Spicca, tra queste, quella di Scarrato Antonio, il quale nell’istante in cui il piroscafo venne colpito si trovava nella cabina addetta a ufficio postale, dove svolgeva la sua funzione di timbratura delle lettere in partenza. Appisolatosi sullo scrittoio, dopo aver congedato il primo ufficiale, Gennaro di Meglio, che andava a radersi nella sua cabina, fu svegliato da un rumore improvviso. Dal momento che la porta era bloccata, udite le grida dei presenti a bordo, avvertito uno sbandamento e vista in aria polvere di carbone, Antonio pensò di prendere quella che sembrava essere l’unica via di fuga possibile e che passava per l’oblò della cabina. Sopraffatto dalla preoccupazione per lo zio cuoco, Sacchettino Giuseppe, Antonio pensò bene di percorrere il corridoio di sinistra per raggiungere la sala cucine. Imbattutosi nel capo macchinista, Ortese, in visibile stato di shock, proseguì sino alla destinazione prefissata. Una volta notato il corpo dello zio sanguinante per terra, provò a toccarlo con il piede, ma non ottenendo alcuna risposta, si lasciò cadere in acqua nella speranza di potersi trarre in salvo, mentre lo scafo affondava, spezzato al centro.

Ancorato insieme ad altri superstiti a una zattera di fortuna, improvvisata con un pezzo del relitto, Antonio e gli altri sopravvissuti vogarono per 20 minuti nella speranza di avvicinarsi alla riva. Intanto, da Lipari giungevano un MAS e un dragamine per prestare soccorso. La brutta esperienza sembrava conclusa, quando Antonio vide riemergere la torretta del sommergibile e rialzarsi una colonna d’acqua e aria sotto la costa di Vulcano. Nessun mitragliamento contro di loro, come qualcuno aveva ipotizzato, ma l’ennesimo siluro lanciato nel tentativo di ostacolare la manovra di soccorso. Tratti tutti in salvo, Antonio e gli altri superstiti videro arrivare da Milazzo due MAS tedeschi e gli idrovolanti per prestare assistenza. Altrettanto toccante è la testimonianza di Antonino Sidoti, imbarcato come ingrassatore, il quale venne colto dall’esplosione mentre si trovava nel locale fuochisti a poppa. Bloccatasi la porta, Antonino provvide a forzarla per buttarsi in acqua con addosso solo i calzoni. Aggrappatosi a una zattera di fortuna con altre tre persone – supino e sopraffatto dai brividi di freddo – venne incoraggiato da uno dei sopravvissuti che aveva notato l’avvicinamento di un dragamine. Intorno a lui, la gente si agitava, gridava e chiedeva aiuto.

A intensificare l’intensità del racconto, contribuisce la testimonianza del marinaio Giovanni Re, il quale al momento dell’esplosione si trovava nella cabina del radiotelegrafista. Il marinaio riferisce che le operazioni di bordo, sino a quel momento, si erano svolte regolarmente alla presenza del comandante, del capocannoniere e del timoniere Florio Pasquale. Era di vedetta il marò Formica Giuseppe, quando fu avvertita l’esplosione e Giovanni si ritrovò a terrà, coperto dalle macerie. Rialzatosi e prodigatosi per cercare un salvagente, raggiunse una zattera di fortuna, poi si strappò di dosso la camicia per legarla alla staffa per segnalare la sua presenza e quella di altre 9 persone. Giovanni ha fornito notizie del radiotelegrafista Paolo Cuzzocrea, che, suppone, sia stato travolto dal vortice e annegato. Nell’istante dello scoppio, il carbonaio, Quadara Francesco, invece, aveva chiesto il permesso per allontanarsi dalla caldaia e mentre si trovava davanti al lavandino, colto di sorpresa, sfondò l’oblò per trarsi in salvo. Intanto, la nave si inabissava a prua, con la poppa alzata e l’elica ancora in moto. Anche Arcadi Antonino si salvò, prontamente, forzando la porta e si gettò in mare aggrappandosi a un barile. Egli, con la sua accorata testimonianza, presuppone la morte del comandante, degli ufficiali e sottufficiali di scorta, e dei passeggeri di prima classe che – al momento della tragedia – si trovavano nel salone principale. Ogni anno, per i turisti di Salina, la tragedia del Santamarina rivive attraverso la commemorazione delle sue vittime e la testimonianza di chi ebbe la fortuna di portarsi in salvo: è il ‘racconto umano’ di una tragedia mai sopita nel cuore della comunità eoliana.

di Tiziana Santoro