La lezione di Peter Handke: Desiderare è vivere

Vivere da morti o morire da vivi? È il nodo centrale intorno a cui si s’infittisce il caso di suicidio descritto da Peter Handke nel romanzo Infelicità senza desideri. Opera in cui il premio Nobel per la letteratura 2019 ripercorre le tappe più significative della vita della madre morta suicida. La protagonista vive in Austria nel difficile contesto socio-culturale che muove dall’affermazione del nazismo, attraversa il secondo conflitto mondiale e culmina nel bipolarismo post-bellico. Percorrendo le tappe esistenziali della storia materna, l’autore sviscera i condizionamenti e le pressioni culturali che hanno, progressivamente, contribuito all’annichilimento dei desideri e delle aspettative di vita della madre. Donna allegra, motivata nello studio, spavalda e desiderosa d’amare subisce il suo destino sino ad abbandonarsi, a essere un fantasma, un essere invisibile ai suoi affetti e alla società. Il contesto socio-culturale, progressivamente, logora aspettative e desideri, alla leggerezza della gioventù subentra uno stato di straniamento dalla vita reale che degenera quasi nella follia. L’estrema reazione vitalistica compiuta dalla protagonista, l’unico atto di volontà possibile è la pianificazione attenta, volitiva e meticolosa del proprio suicidio. Le circostanze della vita l’avevano educata al risparmio, alla povertà, alla rinuncia e a un unico amore violento, a essere madre ancor prima che donna. Per il contesto cattolico-contadino, la vita autonoma era qualcosa di sfacciato e per il mondo piccolo-borghese la persona si perdeva nel tipo: una dottrina che sminuiva l’essere entro un prodotto sociale, una forma asfissiante. Ne emerge la figura di una sensibilità isolata: non era sola, ma dimezzata, non era diventata nessuno e non poteva diventare qualcuno.

La storia si compie intorno a lei: una mascherata, frutto di una politica immateriale, autonoma, niente che fosse visibile, comprensibile, accessibile. Gli avvenimenti storici si presentavano come uno spettacolo naturale entro cui si attuava il destino nefasto del nascere donna: non essere ascoltata, non udire, parlare da sola, reggersi a fatica. Matura, gradualmente, nella mente della protagonista una consapevolezza: la casualità della vita terrena e della propria casuale sfortuna. Sprazzi di se stessa sopravvivevano nella letteratura: solo studiando, aveva percepito qualcosa di sé, tuttavia, la reinterpretazione letteraria della propria esistenza era limitata a una rivisitazione del passato e mai del futuro, chiaro segno che l’incomunicabilità con mondo e l’assenza di prospettive avevano preso il sopravvento. Nell’esperienza intima ed esistenziale della protagonista, si intravedono le premesse per una riflessione sulla condizione femminile: benché avesse il potenziale per figurarsi una vita che non fosse fatta solo di lavori domestici dall’alba al tramonto, la società l’aveva costretta sin dall’inizio a salvare la forma in tutto; era opinione comune che il compito della donna fosse: tenere insieme la famiglia, vivere in una miseria formalmente perfetta, sforzarsi, ogni giorno, di salvare una faccia che andava disanimandosi.

Nel romanzo è altrettanto centrale il tema della funzione della letteratura, poiché essa apriva, nella mente della protagonista, sporadici squarci di autoconsapevolezza: leggendo ricominciava a vivere, usciva fuori dal suo guscio, imparava a parlare di sé, leggendo e parlando sprofondò e riemerse con un nuovo sentimento di sé. Tuttavia – se per la protagonista la letteratura era fuga nel passato, ripensamento del proprio vissuto – per lo scrittore la letteratura è la ricerca di un metodo attraverso cui poter narrare una vicenda personale, preferibilmente ‘dall’alto’, ‘dal di fuori’. Handke avrebbe voluto presentare l’esperienza materna come “un caso” e utilizzare parole e forma appropriate. Malgrado l’intento letterario, la narrazione, talvolta, è sfuggita al controllo dello scrittore per divagare nel ‘sogno onirico’, in cui a tratti emerge il suo dramma personale. L’intento iniziale di ricomporre un’esistenza mancata senza rinunciare alla ricerca di un equilibrio formale è stata spazzata via dalla forza emotiva del racconto, che ha costretto l’autore a rivedere il suo metodo di scrittura: “scrivere non era come pensavo all’inizio, ricordare un periodo concluso della mia vita, ma una costante simulazione di ricordo, in forma di frasi che si limitavano a affermare una distanza (…). Naturalmente, il descrivere è un processo di puro e semplice ricordare: non serve a impedire che le cose accadano una seconda volta”.

Il coinvolgimento stravolge e prende il sopravvento sulla facoltà di controllare forma e materia della narrazione: scrivendo questa storia – afferma l’autore –, mi capitava, a volte, di averne abbastanza della sua sincerità e della sua onestà e di aver voglia di tornare presto a scrivere qualcosa in cui potessi mentire e nascondermi un po’”. Trapela sul finale l’insoddisfazione dello scrittore che dichiara di voler ritornare sulla trattazione della tematica anche in futuro, ma “in modo più preciso”. Permane opprimente – come la trama del bosco che si infittisce nella narrazione – il dubbio del figlio ancor più di quello dell’autore; l’intima riflessione sulle parole scritte dalla madre e che accompagnano le disposizioni testamentarie. La donna rassicurava di essere tranquilla e felice, di essersi addormentata finalmente in pace. Eppure – nonostante il suo vitalismo e la logica fredda organizzazione del suo funerale – si fa strada nella mente del figlio la certezza che quanto è stato scritto non sia vero: resta il tarlo, il segreto di un’esistenza che sfugge, di logiche non pienamente svelate e comprese. Al lettore, resta la forza di una protagonista che si suicida per affermare se stessa e la vita, per porre fine alla mortificazione dell’essere, per imprimere nella propria storia personale un atto decisionale che superi la volontà imposta dalla società: “…raramente senza desideri e felici, in qualche modo, per lo più senza desideri, un poco infelici”; allontanarsi da questa condizione esistenziale, scegliere il suicido come unico atto possibile, significa rivendicare il diritto di desiderare e di sentirsi vivi.

di Tiziana Santoro

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