Industrializzazione alla messinese

Nell’ottobre del 1924, quando ancora la stampa, nonostante l’avvento al potere del Fascismo, manteneva una sua certa vivacità di iniziativa, un coraggioso giornalista della Gazzetta di Messina e della Calabria, Giuseppe Vinci, iniziava un’intensa campagna di denunzia contro le malefatte della dirigenza politica e burocratica dell’epoca, in ordine alla zona industriale, alla zona Falcata e alla zona commerciale. Lo spunto gli era stato offerto da un violento documento di denunzia, emanato, congiuntamente, dall’Unione Artigiani e dal Comitato pro industrie del nord (in questo caso, il riferimento non era la Padania, ma il nord della Città, in particolare il Rione Giostra, dove insistevano la maggior parte delle piccole attività industriali e artigianali di Messina), con cui si opponevano decisamente al trasferimento delle attività produttive, essenzialmente artigianali, nella zona sud della Città.

Interveniva anche la sezione di Giostra del Partito del Lavoro, che proponeva di individuare una zona industriale anche nella zona nord della Città. Al giornalista, in base agli elementi che aveva raccolto, tali preoccupazioni apparvero subito immotivate, giacché le aree della zona industriale erano già state tutte assegnate dall’Unione Edilizia, che definiva non lacrimata e poi anche famigerata, non agli aventi diritto, cioè a coloro che avrebbero dovuto esercitare attività imprenditoriali, ma agli amici. Infatti, tale Ente, controllato, fino al 1923, da Ludovico Fulci e dai suoi amici massoni, serviva esclusivamente ad appagare, sempre e comunque, le richieste delle loro clientele politiche.

Scrisse Vinci La massima parte dei concessionari ha così deviato dai fini veri della concessione. Vi sono stati dei fortunati che hanno saputo strappare un’area a un prezzo irrisorio nel cuore della nuova città sfruttando tutti i benefici di legge, promulgati per gli intraprendenti, costruito con poche migliaia di lire edifici importanti, e qualcuno è arrivato, a costruire un castello medievale per poi finire nella più, usuraia delle speculazioni. […] Si può, quindi, calcolare che le aree comprese tra il Torrente Portalegni fino al curvone ferroviario di Gazzi siano costate agli utenti dalle 12 alle 13lire al mq e quelli oltre il curvone da 4 a 16lire. […] Cospicui borghesi abitano, nel centro della Città, sfruttando anche loro per abitazioni – che altrimenti dorrebbero pagare migliaia di lire al mese – locali che per il loro esiguo costo avevano altra utile destinazione. E il mercato del subaffitto e del trapasso non ha misura né pudore, spalleggiato per reciproche necessità da affaristi privati e pubblici amministratori i quali nella doppia veste sfruttano e tacciono per sé e per gli altri. Così, abbiamo letto or non è molto negli avvisi economici di quotidiani locali i si loca per tali edifici che si subaffittano per 1.000 e 2.000 al mese a case di tolleranza e a taverne”.

Dipese, quindi, da tale utilizzo distorto la massiccia presenza di case di tolleranza nella Zona Industriale, dalla Via Nicola Scotto, la viuzza parallela al Cavalcavia, lungo la Via Industriale la Piccola Velocità, fino al curvone Gazzi. Coloro che, essendo nati prima del 1940, avevano più di 18 anni nel 1958, quando la senatrice socialista Merlin fece approvare la legge che chiudeva le case di tolleranza, ricorderanno il “nutrito campionario di questi luoghi del piacere mercenario, per tutti i gusti e per tutte le borse”, come ha scritto Nino Principato, che insistevano in quella Zona: da ‘La Nasca’, in Via Torino, alla ‘Giorgietti’, nei pressi della ‘Piccola Velocità’, in Via Santa Cecilia bassa, alle ‘Stanze Napoli’, in Via Industriale. E, inoltre, la ‘Napoletana’, ‘II Quarantatrè’, la ‘Miracoli’, ‘La Chiave d’oro’, ‘Linda Romana’, ‘Fiorentina’, ‘Lola’, etc.

di Giuseppe Pracanica

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